Glendalys Medina, Colin Snapp


“Glendalys Medina, Colin Snapp”

Dal 6 giugno al 20 luglio 2013
Galleria 1/9
Roma

La Galleria 1/9 propone una mostra che attraverso le opere di due artisti, offre un timeline che spazia dall’hip hop alla fotografia e alla videoarte.

Glendalys Medina, artista d’origine portoricana, propone per la prima volta al pubblico romano una parte del suo più vasto progetto “The Shank”: le opere nascono dalla voglia di trasformazione, plasmare la propria identità introiettando o imparando linguaggi e attività che esulino da quelle abituali. 
Il cambiamento avviene grazie all’avvicinamento e la conoscenza del mondo dell’hip hop. L’artista abbraccia questa nuova filosofia, carpendone il suo potenziale e usandolo come un mezzo per imparare a essere qualcosa di diverso. Questo comporta un’esplorazione delle varie sfaccettature della cultura hip hop, dalla musica alla breakdance per arrivare alla pratica dei graffiti: Glendalys Medina sperimenta tutto ciò, mettendo in gioco il proprio corpo, per autotrasformarsi e sfuggire alle categorizzazioni mentali e sociali. 
Da questa rinascita, prende vita il nome del progetto artistico, “Tha Shank”, parola gergale che sta ad indicare un coltello fatto a mano, di solito in prigione o nei quartieri popolari, un regalo fatto a chiunque voglia rinascere o ricreare se stesso.

All’interno del medesimo spazio espositivo, sono presenti alcune opere dell’americano Colin Snapp, che studia per diventare regista al San Francisco Art Institute, ma sceglie di applicare le sue conoscenze in campo registico all’arte, in particolare concentrandosi sul rapporto dell’uomo con la tecnologia e la natura. Non esiste più un legame diretto tra l’uomo e ciò che lo circonda perché l’osservazione è costantemente mediata dagli strumenti di comunicazione di massa, dai nuovi dispositivi tecnologici che ci rendono “osservatori osservati”. 
Le dinamiche dello sguardo cambiano, si complicano per certi versi a causa dell’introduzione di nuovi attori come macchine fotografiche, videocamere e schermi di tutti i tipi che mediano il nostro sguardo verso la realtà e la natura. Colin Snapp cerca di isolare l’atto di riprendere o fotografare un elemento naturale per capire quanto il supporto tecnologico snaturi l’essenza dell’elemento stesso o se invece riesca a preservarne le caratteristiche vitali.

Ci si aspetterebbe che qualche elemento di omogeneità leghi le due esperienze artistiche, ma in realtà è una convinzione erronea, perché le due mostre sono in rapporto di discontinuità. Colin Snapp indaga ciò che ci circonda, ciò che ha modificato il nostro modo di vivere e osservare la natura e lo fa facendosi supportare egli stesso dalla tecnologia. La sua arte si avvicina molto alla pratica delle videoinstallazioni e alla fotografia. Glendalys Medina invece, ricorre a elementi più classici dell’arte, come il disegno a mano, per quanto anche lei esplori la dinamica del video. 
Ma il suo obiettivo non è quello di indagare l’altro da sé: il soggetto della sua arte è lei stessa, il suo corpo, la sua identità, l’io che Colin Snapp perde di vista a favore dell’invadente tecnologia. In un certo senso, la continuità tra le due esposizioni sta solo nell’idea della trasformazione: Glendalys Medina trasforma se stessa, Colin Snapp indaga la trasformazione della natura per mano della modernizzazione.

Nella prima sala, troviamo le opere di Colin Snapp, continuazione del passato progetto “Panorama” che consisteva nell’osservare la natura nei parchi nazionali americani. Ciò che cattura la sua attenzione è soprattutto la vita naturale osservata tramite la fotocamera. Le gigantografie al centro della sala non sono altro che il risultato di fotografie scattate allo schermo LCD della macchinetta fotografica con cui l’artista ha ripresa piante di varia specie nel corso dei suoi studi nei parchi. Il risultato è una fotografia che manca assolutamente di emozione e che snatura l’essenza vitale dell’elemento ripreso, mediato da uno schermo, quindi velato, spento nei colori. 
Per il resto osserviamo un video che riprende gruppi di visitatori che scattano foto o girano video di panorami naturali. L’artista che riprende la scena crea un gioco tra l’osservare chi osserva e chi è osservato, poiché con la sua videocamera segue gruppi che scattano foto e a loro volta fanno video. Alcuni momenti del tour del gruppo di turisti sono immortalati su una sequela di piccole foto ai lati della sala, che assomigliano a cartoline e risultano ben poco visibili. 

Glendalys Medina risulta un po’ più interessante con le opere “Alphabet Series”, una parte del progetto “The Shank”: l’artista ricrea lettere dell’alfabeto, servendosi di matite e pennarelli colorati e ispirandosi alla forma del Boombox, lo stereo simbolo dei musicisti hip hop. Le lettere in effetti non si distinguono facilmente e l’ispirazione di fondo è altrettanto difficile da cogliere senza un supporto, le composizioni geometriche intrigano ma senza veicolare una forma precisa. Per il resto, la sala raccoglie materiale visivo della pratica dei tag e dei graffiti sperimentata dalla stessa Glendalys Medina, uno degli strumenti per plasmare la propria identità e il proprio corpo: il video “Cut Project” riguarda il tag dell’artista alla Gagosian Gallery, mentre “BlackGold Video Tag Diary” ritrae Glendalys Medina mentre posa la sua firma in bianco e nero “BlackGold” in luoghi strategici di New York.

Due artisti giovani assemblati insieme che richiederebbero forse degli spazi più ampi e separati per cogliere il senso della loro arte, di cui si danno, alla Galleria 1/9, solo degli assaggi. Glendalys Medina sembrerebbe avere molto più da dire, ma la raccolta di materiale esposta non dà il quadro completo del progetto di autotrasformazione “The Shank”. 

Irene Armaro

Per maggiori informazioni:
gallery@unosunove.com