Quattro vite jazz
di
A.B. Spellman
Il jazz non lo puoi spiegare a qualcuno senza perderne l’esperienza. Dev’essere vissuto, perché non sente le parole. Le parole sono i fanciulli della ragione, e quindi, non possono spiegarlo. Queste non possono tradurre il feeling perché non ne sono parte. Ecco perché mi secca quando la gente cerca di analizzare il jazz come un teorema intellettuale. Non lo è. E’ feeling.
Bill Evans
Il jazz è un genere musicale nato in America dall'incontro della musica afroamericana (blues, spirituals, canti di lavoro) con la musica bianca europea (spec. quella popolare). Ritmo sincopato, poliritmia degli strumenti, improvvisazione solistica o polifonica sono i suoi tratti distintivi. La storia del jazz affonda le radici nella tradizione degli schiavi afroamericani, persone che avevano con sé una tradizione che esprimevano mentre lavoravano (i cosiddetti "field hollers" e "work song"), mentre pregavano (gli "spiritual", che negli anni trenta del XX secolo avrebbero dato origine al "gospel") e durante il loro tempo libero. Il jazz fu creato dagli africani deportati negli Stati Uniti e schiavizzati, che cantavano per alleggerire il lavoro. Il genere si sviluppò in modo esponenziale tra il 1915 e il 1940, diventando la musica da ballo dominante tra il 1930 e il 1940, anni in cui i brani delle big band si trovavano regolarmente ai primi posti delle classifiche. A questo periodo seguirono diversi decenni in cui il jazz si caratterizzò in maniera crescente come una musica d'arte, tipicamente afroamericana. Nella storia della musica si trovano molti antenati che hanno permesso la nascita di questo nuovo genere musicale contraddistinto dalle reminiscenze della musica africana (canti e richiami di lavoro), dai canti religiosi spirituali delle chiese protestanti ai canti blues sino alla musica europea per banda militare e perfino echi dell’opera lirica. Nel corso del XIX secolo e soprattutto nella seconda metà, le tradizioni musicali afroamericane iniziarono a trovare eco in spettacoli d'intrattenimento, attraverso varie forme di rappresentazione, delle quali forse le più famose erano i "Minstrel show" che in una cornice carica di stereotipi razziali rappresentavano personaggi tipo dell'afroamericano. Le musiche di scena di questi spettacoli erano rielaborazioni di musiche afroamericane (o presunte tali). Da questo substrato musicale emerse, alla fine dell'Ottocento, un canto individuale che venne chiamato blues e che ebbe una vasta diffusione, anche attraverso i nascenti canali commerciali, tra la popolazione afroamericana. Il pubblico statunitense del jazz si assottigliò, mentre la musica destava un crescente interesse in Europa e nel resto del mondo. Nel vecchio Continente si guardava con grande interesse al jazz e gli artisti che venivano sul continente a dare concerti ricevevano ottime accoglienze, rese ancora migliori dalla relativa assenza della segregazione razziale e dei pregiudizi che ancora imperavano in America. Questo fece sì che molti jazzisti intraprendessero lunghe tournée in Europa (Coleman Hawkins e Sidney Bechet tra gli altri) provocando la nascita di molti gruppi di imitatori. Questa relazione del jazz con l'Europa avrebbe subito una battuta d'arresto nel corso del secondo conflitto mondiale solo per riprendere con ancora maggior vigore negli anni del dopo guerra.
Almeno un musicista europeo riuscì in questo periodo a guadagnarsi una fama che avrebbe attraversato l'oceano in senso opposto, ottenendo una grande fama tra i jazzisti americani. Si tratta di Django Reinhardt, un chitarrista belga di origini zingare che fuse in maniera apparentemente improbabile swing e musica tzigana, guadagnandosi il rispetto dei colleghi americani (che avrebbe incontrato nel loro paese solo verso la fine della sua vita) attraverso le incisioni dei gruppi che formò assieme al violinista francese Stéphane Grappelli. L'avvento della seconda guerra mondiale, con le ristrettezze e le incertezze che ne conseguirono, pose fine al periodo delle grandi orchestre, la maggior parte delle quali, nel corso del decennio, dovette chiudere. Attorno al 1945, da un gruppo di giovani musicisti che si ritrovano a tarda ora alle jam session che si tenevano in due locali di Harlem, il Minton's Playhouse e il Monroe's, nacque uno stile jazzistico nuovo. Questo stile che, con una parola, ricordava il suono di una cadenza caratteristica di due note che ricorreva nei brani in esso eseguito, venne prima detto rebop, poi bebop o semplicemente bop: "Be-Bop". Il bebop riprendeva molte delle lezioni della musica recente, insegnate da protagonisti come Coleman Hawkins, Art Tatum e Lester Young, aggiungendovi un nuovo approccio al trattamento armonico dei brani, tempi velocissimi, propulsione ritmica non convenzionale e, per la prima volta dalla nascita del jazz, scarsissimo riguardo per la ballabilità e commerciabilità della produzione musicale. Il bebop si caratterizzò come un movimento di musicisti, più che di direttori d'orchestra e di compositori, come testimonia il fatto che le innovazioni da esso apportate non riguardarono praticamente la forma dei brani, che continuò ad essere dominata dalla canzone in trentadue battute AABA e dal blues. Si trattò inoltre di un movimento coscientemente afroamericano: Gillespie ed altri ricordano che una delle motivazionni della loro ricerca era trovare un tipo di musica che i bianchi non potessero copiare. Oltre all'esasperazione ritmica e all'accento che poneva sul virtuosismo strumentale, il bebop trasformò l'approccio armonico, infittendo il tessuto accordale dei pezzi dove trovavano largo impiego accordi di quinta diminuita e toni di colore, e conferendo un andamento orizzontale all'improvvisazione. Gli atteggiamenti esteriori e lo stile di vita dei boppers, almeno quanto la loro musica, guadagnarono loro l'avversione dei benpensanti e l'attenzione del movimento culturale beatnik, per molti esponenti del quale (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti) i bopper divennero un punto di riferimento musicale, che citavano nelle loro opere, indicando in Charlie Parker la musa del genere.
Lo show-business ai tempi del bebop viene raccontato dallo storico musicale: A.B. Spellman.
Lo scrittore statunitense nel libro, “Four jazz Life”, racconta il fenomeno bebop, con uno stile innovativo e anticonvenzionale. Il testo, pubblicato nel 1966 è stato tradotto in italiano dalla casa editrice Minimum Fax. Le "quattro vite jazz" di Cecil Taylor, Ornette Coleman, Jackie McLean e Herbie Nichols sono raccontate attraverso i ritmi incandescenti e le armonie visionarie del jazz, i club fumosi degli anni ’60, le tensioni e le innovazioni socio-culturali di un'America che cambia, la droga e la solitudine di essere geni incompresi. Esistenze accomunate da anticonformismo e la difficoltà dì vivere con la propria arte. Personaggi che hanno riscosso pochissimo, sia in denaro che in gratificazioni artistiche, ostacolate dal conformismo del gusto medio e dall’affarismo di etichette discografiche e proprietari di locali.
Attraverso i case studies di quattro musicisti geniali ma spesso avversati dai contemporanei perché considerati troppo “difficili” o “sperimentali” - i pianisti Cecil Taylor e Herbie Nichols, i sassofonisti Ornette Coleman e Jackie McLean - Spellman offre un resoconto aspro e disincantato del conflitto tra le esigenze dell’entertainment e quelle dell’integrità artistica, tra le asfissie del mercato discografico e gli orizzonti potenzialmente infiniti della ricerca musicale. Ciò che emerge da queste pagine, nel vivido racconto in prima persona dei protagonisti, è una vicenda di battaglie quotidiane per la sopravvivenza, fra difficoltà economiche, droghe e discriminazioni razziali; ma anche una storia di speranza e solidarietà, di inaspettati riscatti e rari, luminosi successi. Pubblicato originariamente nel 1966 e tradotto oggi per la prima volta in italiano, “Quattro vite jazz” è, come scrive l’autore nella nuova prefazione, “una macchina del tempo, il ritratto di quattro musicisti impegnati nella creazione artistica e in lotta contro fattori violentemente ostili. Quando ci sono lotte così, le belle storie da raccontare non mancano mai. E soprattutto, non invecchiano mai.
L’autore lascia voce agli artisti, il racconto viene narrato da ogni musicista, presentando una sorta di monologo. Rivalità, intuizioni, gioie ed insuccessi, prendono nuova vita e forma attraverso le parole dei protagonisti.
«C’è una ragione – scrive Spellman nell’introduzione alla prima edizione, qui riportata nella traduzione di Marco Bertoli – per cui le case discografiche e i proprietari dei locali appaiono in queste pagine come cattivi: lo sono. […] Sono in primo luogo uomini d’affari, com’è ovvio, e la prima cosa che guardano in un gruppo o in un musicista è il suo potenziale commerciale». C’è però un altro nemico in queste pagine, o per lo meno un cruccio forse ancora maggiore: la volgare indifferenza che l’America riserva, in quegli anni, a quegli aspetti della cultura afroamericana, che non rientrano nel semplice entertainment: e dunque è anche grazie all’attività di artisti come Coleman, McLean, Nichols e Taylor se il jazz, oggi, da mero divertissement, è diventato arte a tutti gli effetti, e se alla cultura nera è riconosciuta una sua dignità”.
Quattro vite jazz è un testo unico, fondamentale per la critica moderna musicale. Nelle pagine del libro, trasuda il gusto della lotta contro le avversità ed il pensiero comune della società, narrate sotto forma di slang da voci di strada, oltre che numerosi aneddoti. Tra le righe si scorge la casistica delle condizioni precari e degradanti del-bussiness del bebop-, ovvero il contesto economico creato da una rivoluzione musicale che ha voluto sottrarre al Jazz la sua funzione di intrattenimento, rendendolo d’avanguardia. Così i musicisti si sono spostati dalle sale da ballo ai locali notturni, come il Five Spot, storico locale newyorkese. In questa trasformazione sono nati degli innovatori, come Tayòlor e Coleman, che attraverso i loro sidemen, nonostante la crisi e le insicurezze economiche e sociali, non hanno avuto paura di andare avanti.
“ Sono un nero, sono un musicista jazz. poco importa se esecutore o compositore. In quanto neo e jazzista, mi sento del tutto avvilito. Il fatto è che per avere un profitto, o almeno andare in pari, devi calcolare ogni cosa, sino alla carta igienica. Gratis non te la danno, e ti serve”, scrive Coleman.
Lo stile discorsivo ed il taglio biografico, creano un documento sui generis che riesce a dar voce ai musicisti in modo originale e reale.
Fabiana Traversi
Per ascoltare le tracce:
A.B Spellman, “Quattro vite jazz, O. Coleman, H. Nichols, J. McLean”, 1966, traduzione di Marco Bertoli, Minimum fax, 2013